Il
viaggio verso Nairobi ci mostra la notevole differenza di sviluppo tra nord e
sud del Paese, ci svela tante contraddizioni, fornendo spunti di riflessione.
Il
nord, dove abbiamo soggiornato per costruire l’impianto fotovoltaico, è isolato
dalla capitale e dagli altri centri urbani principali, arretrato e soggetto ad
una dimensione tribale. Le strade di collegamento sono poche, sterrate e per
certi periodi dell’anno allagate ed impraticabili. Prevale la cultura
tradizionale Samburu, Turkana e Pokot, l’allevamento e l’economia di
sussistenza. Storicamente le contaminazioni culturali sono state esigue, la
stessa colonizzazione inglese è stata poco consistente e l’autorizzazione ad
aprire delle case missionarie è ben più recente che nel resto del Paese.
Al
contrario l’economia del sud è decisamente più sviluppata, i centri abitati sono
più grandi, il territorio è più favorevole, la cultura, prevalentemente Kikuyu
e Kalenjin, è più avanzata e risente delle contaminazioni del progresso
occidentale.
Si
possono vedere vaste piantagioni di frumento, frutta, thè, caffè, fiori, oltre
a serre per gli ortaggi. Non mancano le industrie: i cementifici si susseguono,
buona parte della popolazione è operosa e Nairobi è costantemente avvolta da
una preoccupante nuvola grigia di inquinamento.
Nonostante
non ci sia paragone con la situazione del nord, tuttavia il tenore di vita al
sud è mediamente basso, la povertà tangibile e non mancano scenari tristi e
degradanti.
L’economia
e i terreni sono controllati dalle multinazionali occidentali, che si servono
di una manodopera miseramente salariata, quasi senza redristibuire ricchezza e
sviluppo sul territorio. Rabbrividiamo scorgendo anche alcuni nomi di compagnie
italiane, ai quali siamo tristemente abituati, accostati a scenari di estrema
povertà e sfruttamento. Non ci viene difficile supporre che, senza l’oppressione
straniera, il clima e la morfologia del Kenya sarebbero sufficientementi per
garantire al Paese di liberare la popolazione dalla fame.
I
destini della popolazione ci sembrano strettamente legati alla prepotenza della
subordinazione di matrice occidentale e alla possibilità di raggiungere una
situazione sociale più progredita.
Inadatti
tuttavia a fornire un’analisi precisa e lucida di quanto incontrato,
soprattutto per la distanza che ci separa dalla mentalità e dalle abitudini
locali, non possiamo che limitarci ad un paio di considerazioni elementari e
probabilmente iperboliche.
In
primo luogo non possiamo che constatare numerose realtà virtuse, a partire
dalle NGOs, le diocesi e le svariate opere di volontariato. Queste hanno avuto
il merito di portare progresso e cultura, favorendo pacificazione, istruzione, forme
di autosostentamento, nonché l’arrivo di fondi e infrastrutture. Risulta
opportuno sottolineare come tutto ciò rappresenti molto spesso l’unica
possibilità di promozione sociale, con il grande merito di essere disponibile a
chiunque e nei termini di una scelta libera e volontaria, in un territorio
difficile e diffusamente problematico.
D’altra
parte ci domandiamo se il progresso non assuma fin troppo spesso la forma
subdola della misura dei valori, capace di dettare i consumi, le abitudini e i
costumi, adatto a negare le alterità, piuttosto che a promuoverle. Inteso come
modello totalizzante, vincente ed unico, potrebbe violentare una cultura
millenaria ed altrettanto degna di potersi esprimere, finendo per sostituirsi
ad essa.
Non
vorremmo davvero tornare in Kenya e scoprire che della cultura Samburu, che ci
ha così colpito e affascinato, non rimanga altro che una sala da museo e
qualche fantoccio, in apposite
riserve turistiche, appesantito da smartphone e tablet d’avanguardia nelle
tasche.